L'insostenibile pesantezza degli orrori metafisici

L'insostenibile pesantezza degli orrori metafisici
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martedì 21 gennaio 2014

Il n'est chauffe pas à la machine.

Ventisei Novembre 2013, Milano via Comasina.
Oggi si va a vedere cosa c'è dall'altro capo della metro. Comasina sarà l'ennesimo buco nel deserto? Oggi si sfida l'alienazione. E finalmente, dopo essere sfuggita agli occhi interrogativi della gente, gli occhi sempre uguali di fronte ai miei occhi sorridenti, curiosi e altrettanto interrogativi,eccoci, in effetti, di fronte ad un buco. Un vuoto del primo genere è costituito dal primo segnale di vita: un'enorme "emme" che in questo posto sembra evocare la perenne conquista del west da parte dell'imperitura idiozia americana. Non ho ovviamente una fotocamera per provare l'orrore che fa, ho solo la penna. Un vuoto del secondo genere, un vero buco, è cotituito dai lavori in corso per il parcheggio di interscambio dei vagoni della metropolitana. I binari continuano all'infinito, sembrano proseguire finchè tutto sarà collegato e finalmente chiuso in un circolo vizioso, una gabbia nella quale ci si immagina di muovere, come topi da laboratorio sulla ruota: acqua, cibo, paglia, cesso. Andando verso Nord c'è il torracchione della P&G con le macchine degli operai parcheggiate sulle aiuole e spazzatura ovunque; andando verso sud, invece, ci sono supercondomini, tantissima spazzatura lasciata marcire agli angoli delle strade, sui marciapiedi, dietro i tronchi degli alberi, in mezzo alle ruote delle auto dei poveracci. Supercondomini che, in questa zona della città, sembrano quasi tutti abitati da sudamericani, cinesi, filippini e africani nord-occidentali.
Oggi il cielo è bellissimo, azzurro intenso, io lo guardo e me ne innamoro perchè, per il resto, qui intorno, non c'è molto altro da guardare.
Ho trovato una panchina, sono in mezzo a pochi alberi, accanto all'autostrada che scorre e ai rumori della "milano che migliora", come recita il cartello pubblicitario del comune, che buca senza sosta la terra, che frantuma il suo cuore per ricavarne chissà quale misero profitto. Vicino alla mia fredda panchina in legno c'è uno strano e brutto monumento: un piccolo obelisco e una sfinge. Poi una specie di grosso vaso in pietra coperto di muffe e muschi. Intorno qualche sparuto gioco per bambini, attrezzi freddi, abbandonati, e cani vestiti portati in giro dai loro padroni senza guinzaglio. Mi guardano ed io fisso il cane. Di fronte a me, se giro la testa a destra, un grande distributore di benzina che sfrutta lo spazio creato da un incrocio che ha ben cinque braccia a doppio senso di marcia. Tutto scorre placidamente, marcia senza intoppi, i pistoni fluidi segnano il tempo, dentro e fuori la terra, il fumo leggero si disperde nell'aria tersa. La macchina funziona, è viva, ed io a distanza ne ammiro i meccanismi prima di rituffarmici dentro. No, non si sfugge alla macchina.

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